"Le visioni del calvo", in La gente, Torino: Einaudi, 1993, pp.74 sgg.
Una mattina mi svegliai, mi guardai allo specchio e dissi: "Adesso basta, debbo subito fare qualcosa!" Mi lavai la testa col mio solito sciampo per bambini e giù di corsa a prendere l'autobus. Destinazione: via dei Monti di Creta, Istituto dermatologico. Dovevo mettere fine a un destino che si trasmetteva di padre in figlio nei secoli. Dentro di me sentivo che stavo per cominciare una guerra persa in partenza. Mi chiedevo soltanto quanto tempo ci avrei messo a capire che nulla, proprio nulla, potevo fare per cancellare un difetto millenario della mia progenie. Ma in fondo alla coscienza sapevo che accettare la fatale calvizie per me significava anche imparare a subire con rassegnazione ogni sconfitta. Avevo dunque un po' di paura: in gioco non c'era solo la sorte delle mie chiome.
Fino ad un anno prima portavo sulla testa un casco di capelli talmente fitti e affollati che litigavano fra di loro per guadagnarsi un po' di spazio. La mattina, quando li pettinavo, tiravo via i cadaveri e staccavo uno dall'altro quanti di loro stavano ancora lottando. Alla fine una lisciatina di balsamo e i capelli tornavano tranquilli e lucidi a sonnecchiare uno accanto all'altro. Me li portavo in giro allegramente rimettendoli a posto con le dita ogni volta che mi facevano il dispetto di scendermi sugli occhi. Poi, chi sa perché, da un anno a questa parte, malgrado l'affetto profondo e la riconoscenza che nutrivo per loro, hanno cominciato a impigrirsi, a perdere fiducia nella vita. Ogni mattina trovavo tra i denti del pettine ciuffi interi che avevano scelto l'olocausto. L'acqua del rubinetto, quasi con cinismo, li raccoglieva e li dava in pasto alla bocca buia e profonda del lavandino. Ogni mattina la stessa storia.
Primo rimedio: la farmacia. Lozioni. All'inizio quelle delicate, poi le frizioni più energiche, fino alla boccetta azzurra il cui contenuto mi arrossava la faccia e le tempie da farmi somigliare a un fiore vaiolato. I capelli non avevano più ragione di litigare per rubarsi lo spazio, anzi, adesso vivevano comodamente accoccolati uno distante dall'altro senza neanche guardarsi. Specialmente a destra e a sinistra della fronte, dove si stavano aprendo due piazzette lucide e deserte. Pensai a mio padre e al nonno paterno: entrambi erano stempiati allo stesso modo, ma con una fronte molto più ampia della mia. Voleva dire che la mia strada era quella: se non riuscivo a fermare l'ecatombe mi sarei ritrovato con una testa altrettanto triste e piena di bitorzoli. Così quella mattina presi il toro per le corna e decisi di rivolgermi ai grandi specialisti, alle massime autorità scientifiche nel campo dermatologico.
L'Istituto era peggio di una stazione ferroviaria: la folla bisbigliante si accalcava intorno a un distributore automatico di biglietti numerati. Mi misi in coda e soltanto dopo un'oretta riuscii a staccare il mio numero. Poi chiesi a qualcuno che cosa dovessi farci con quel biglietto. Mi risposero che dovevo aspettare il mio turno per andare allo sportello a parlare con un'infermiera. Ben munito di pazienza aspettai un'altra ora e mezza, avvicinando mi passetto dopo passetto all'infermiera seminascosta dallo sportello. Finalmente toccò a me. Le dissi che volevo essere visitato da un professore sapiente di capelli, possibilmente un luminare. Quella alzò lo sguardo sulla mia testa e con una smorfia mi consegnò un biglietto numerato. Pagai in silenzio e mi persi di nuovo nella calca. Notai che sulla grande porta vetrata, proprio al centro, c'era una specie di orologio che di tanto in tanto faceva scattare numeri progressivi. Capii che avrei potuto varcare quella soglia quando il mio numero fosse comparso nel contatore. Ora c'era il numero 28. Guardai il mio biglietto sul quale era stampato il numero 324. Misurai il tempo medio che passava tra un numero e l'altro nel contatore, feci un calcolo veloce e capii che non sarei entrato prima delle sedici del pomeriggio. Decisi di andare in una trattoria vicina.
In trattoria scoprii che c'era Mirella, non la non vedevo da almeno sei anni. Lei, purtroppo, non mi riconobbe, sicuramente a causa dei miei capelli scesi di volume. E tanto bastò perché la fame mi passasse di colpo. Mi limitai al prosciutto e melone e ad un caffè. Quindi scappai di lì e andai a sedermi su una panchina a un mezzo chilometro dall'Istituto. M'addormentai per qualche momento, ma mi sembrò di essere rimasto nel sogno una vita intera. Nel buio degli occhi mi apparve, sotto il cielo fosco, una pianura vasta e arida. La siccità aveva spaccato la superficie terrestre e di tanto in tanto da quelle fenditure emergevano cespuglietti spinosi. Sembrava il fondo di un lago completamente asciugato dal sole; la spianata dava infatti l'impressione di fango secco, attraversato da lunghe ferite nere. Lontano si vedeva una montagna di creta dello stesso colore della mota. Non c'era anima viva. Nemmeno io. E la sensazione angosciosa veniva proprio da questa mia assenza. Mi cercavo in quel luogo e non mi trovavo. Mi svegliai dallo spavento, ma l'angoscia si moltiplicò subito per mille perché, pur avendo gli occhi aperti, lo spettrale spettacolo non cambiava. Anzi, cominciai perfino a sentire l'odore acre e polveroso di quel luogo abbandonato. Nelle mie orecchie fischiava appena un venticello caldo e umido. Urlai. Ma in quella valle sorda io stesso non sentivo la mia voce. Provai ad alzarmi dalla panchina, come un cieco. Inciampai nella siepe e caddi a terra. Chiusi gli occhi, li riaprii: erano quasi le sedici. Ci risi un po' su, tanto per alleggerirmi l'animo prima di affrontare il medico.
Comparve sul contatore il numero 324 e mi presentai all'infermiera della grande vetrata. Questa mi fece entrare e mi indicò una sala d'aspetto dove c'era già una mezza dozzina d'altri pazienti. Chi tatuato dall'erpes, chi in vaso dai brufoli, chi mascherato dalle pomate. Per un momento mi vergognai di trovarmi tra tanti disgraziati col mio stupido problema dei capelli, ma ormai stavo in ballo e inoltre quelle visioni apocalittiche che mi avevano aggredito potevano anche essere il segno di un male ben più grave di una semplice impetigine. Aspettai pazientemente il mio turno. Un'altra oretta almeno. E siccome vedevo che dalla porta del professore i pazienti uscivano tutti con un bel sorriso, mi caricai di fiducia. Finché l'infermiera non mi chiamò per nome. Mi alzai ed entrai nello studio del dottore.
Rimasi di ghiaccio. Non riuscivo a mandare giù la saliva tanto ero paralizzato. Il medico mi guardava interrogativamente, con il suo sguardo arcigno. Io gli fissavo la testa e balbettavo. Il medico, alto e grosso, era completamente calvo, la sua faccia sembrava una lampadina accesa. Era nudo di peli perfino dietro la nuca e sopra le orecchie. Mi chiese: "Allora, che problemi ha lei?" Non risposi subito e quello cominciava a innervosirsi. Lì per lì non riuscii ad inventarmi una malattia della pelle. Mi gettai a corpo morto, dovevo andare fino in fondo. Mi avvicinai alla sua faccia e, allargando con le dita i capelli sopra le tempie, gli mostrai che in quei due punti li stavo perdendo. Il medico mi guardò storcendo la bocca e disse: "Non c'è niente da fare!" E io risposi: "Capisco!"