"L'uomo del microscopio", in La gente, Torino: Einaudi, 1993, pp.5 sgg.
Una domenica mattina, mentre in casa ancora dormivano tutti, dopo essersi lavato, sbarbato e vestito, e aver infilato la testa nel cappello, si preparava ad uscire per la solita passeggiata solitaria dei giorni festivi. Si cercò in tasca gli spiccioli per il giornale, ma non aveva neanche una moneta. Allora, in punta di piedi, cercando di non svegliare Mariella, rientrò in camera da letto, afferrò la borsetta della moglie e la portò nell'ingresso. Qui prese a frugarla in cerca di soldi. Ma nel rivoltare le cianfrusaglie gli capitò in mano una lettera indirizzata dalla moglie a Carlo, un loro comune amico. La busta era ancora aperta. Aurelio estrasse i fogli senza tanto pensare. Lesse e restò paralizzato. Era una lettera di addio.
Dopo una furiosa e appassionata relazione d'amore tra i due, Mariella, spaventata dai propri sentimenti e dall'idea di dare al marito un terribile dolore, aveva deciso di interrompere definitivamente i loro incontri clandestini. A saperla ben leggere, quella lettera non era che una folgorante, struggente dichiarazione d'amore per il marito. Mariella infatti raccontava a Carlo tutta la sua tenerezza per il padre dei suoi figli, per un uomo che era dolcissimo e generoso. Ma Aurelio, lì per lì, colse in quelle parole solo i sapori acidi e il crudo messaggio del tradimento. Richiuse la lettera, la rimise a posto. Andò a posare la borsetta dove l'aveva trovata e, mesto, uscì di casa.
Le strade erano ancora deserte, profumate dalla rugiada delle colline che giravano intorno alla città. Aurelio, come ogni domenica mattina, si perdeva per quelle vie assonnate fermandosi ogni tanto a guardare le vetrine chiuse, i gatti randagi acciambellati sui tetti delle automobili, i pochi passanti che, come lui, si godevano i silenzi e i colori degli antichi palazzi, il docile scrosciare delle fontane. Camminava e si chiedeva cosa avrebbe dovuto fare; si domandava, senza trovare risposta, perché Mariella avesse sentito il bisogno di tradirlo. E di tanto intanto un nodo alla gola lo strozzava. Sapeva che qualsiasi iniziativa non avrebbe che peggiorato la situazione. Si sedette su una panchina e rimase lì a lungo, triste e meditabondo. Pensava alla sua vita, ai suoi affetti, al suo lavoro.
Aurelio, da anni e anni, se ne stava quasi sempre con l'occhio sinistro chiuso. Il destro lo teneva spalancato dentro il tubo telescopico a studiare i microrganismi per scoprire, tra i tanti buoni, i pochi cattivi. Era un maestro della tecnologia, un ingegnere della chimica umana, il padrone assoluto di quel sofisticato strumento, di cui conosceva vita, morte e miracoli, fino all'ultima viterella.
Aurelio il male lo cercava dentro una lacrima, in una stilla di sangue, in una goccia di sudore. La mattina alle otto poggiava l'occhio destro contro l'oculare del microscopio e in quella posizione di estrema, morbosa curiosità, se ne restava fino a sera, fino all'ora in cui, toltosi lentamente il camice, infilatasi la giacca e calzato il cappello, chiudeva la porta del laboratorio e tornava a casa.
Questo per sei giorni alla settimana. Tanto che l'occhio destro era perennemente circondato da un segno rosso. Insomma gran parte dell'anno Aurelio la passava a osservare la vita minuscola dei corpi minuscoli. Corpi che, malgrado la loro piccolezza, erano capaci di uccidere un uomo di cento chili. Aurelio vedeva microbi grandi come elefanti, mostruosi e pelosi come ragni, ingordi come maiali. Si muovevano pigramente in paesaggi pulsanti e umidi, ingoiavano di tutto e ingrassavano a vista d'occhio. Ogni tanto, a disturbare queste bestiacce, arrivava un cristallo liquido, un innocuo cordoncino trasparente, una pietruzza inerme. E quelli, senza esitare, ne facevano un sol boccone.
Ma per fortuna non sempre sui vetrini comparivano queste crudeli e raccapriccianti immagini. Talvolta Aurelio perdeva la vista di quell'occhio destro dentro immensità senza confini, in spazi infiniti, dove regnavano una pace e un silenzio sempiterni. Paesaggi lunari, diafani e ghiacciati gli si aprivano d'improvviso davanti. Oppure grandi foreste acquatiche, in cui alberi, arbusti e fiori danzavano dolcemente. Altre volte Aurelio assisteva a spettacoli di luce che lo ammaliavano come il richiamo di mille sirene.
Ma ciò che più spesso egli vedeva erano vere e proprie città, con grattacieli, cattedrali, chiese, immani quartieri, strade, piazze, monumenti, palazzi: geometrie perfette, speculari, equilibrate. Però il suo occhio destro non si fermava a quelle forme immobili e squadrate, andava spietatamente a cercare quanto, in fondo a quei labirinti, sembrava muoversi. E in genere Aurelio riusciva a scovare piccole folle di minuscolissime creature nere che si rintanavano nei meandri di quel gigantesco atlante. Allora lui cambiava lente, ruotava i pomelli del fuoco. Così quegli esserini non appartenevano più al mistero e, ognuno, nella mente di Aurelio, assumeva un nome preciso. I buoni li lasciava andare, i cattivi invece li seguiva passo passo nei loro misfatti. E prendeva nota.
Mano a mano che la lente calava in mezzo a quelle strade, gli animalini cattivi ingrandivano. E più ingrandivano più si mostravano in tutta la loro deformità. Rivelavano denti puntuti, occhietti feroci, artigli aguzzi. Aurelio li vedeva spulciarsi, lottare e orrendamente accoppiarsi. Li vedeva seminare i loro lordi escrementi.
Il mondo interiore di Aurelio, dopo tanti e tanti anni di quel lavoro, s'era popolato di immagini irreali, di meraviglie, ma anche di spaventose visioni. Il suo mestiere gli aveva insegnato, tuttavia, che nella vita è bene non andare troppo in fondo alle cose: sempre, prima o dopo, sbuca fuori un mostriciattolo. Per questo Aurelio sapeva godere della normalità, della placida quotidianità delle persone semplici. Amava teneramente Mariella ma non le domandava mai niente. Era calorosamente affezionato ai due figli, ma si limitava a occuparsi della loro salute e dei loro studi. Insomma si fermava sempre al momento giusto, alla giusta profondità.
Agendo in questo modo Aurelio viveva nella sublime ignoranza di ciò che realmente succedeva a casa sua. E ignorando scientificamente il male, lo rimuoveva. La sua famiglia non poteva mai contare su di lui, preferiva cavarsela da sola per non turbare la serenità di quell'uomo che lavorava dalla mattina alla sera. Mariella tornava tardi e lui le faceva trovare la cena pronta senza porle alcuna domanda. La bambina non dormiva la notte per qualche oscuro turbamento e Aurelio, con la più grande calma di questo mondo, l'aiutava dandole un leggerissimo tranquillante. Mariella apprezzava questa particolare filosofia del marito. Le sembrava un modo adulto di rispettare l'intimità altrui, anche delle persone più vicine. Di fronte all'atteggiamento di Aurelio, tutti erano responsabili di se stessi, padroni delle loro scelte, nel bene e nel male.
Aurelio si alzò dalla panchina con un brivido. Aveva il bisogno di posare tutti e due gli occhi sulle cose grandi, su spazi macroscopici che gli imponessero un punto di vista a sua stessa misura. Allora salì sulla terrazza più alta del Duomo, piano piano. E quando, col fiato un po' grosso, poggiò le braccia sulla ringhiera di ferro, e allargò lo sguardo sopra i tetti, sulle piazze, sull'intrico delle strade, sulle collinette lontane, per un momento sentì il cuore rinfrancarsi. Ma solo per un momento, perché presto, nel fissare il formicolare delle persone che cominciavano a riempire la città, ebbe l'istintivo moto di chiudere l'occhio sinistro e di piegarsi un po' in avanti. Da un attimo all'altro si aspettava che dai portoni venissero fuori virus e batteri, esseri portentosi, grifoni, orchi, minotauri. Riscese giù in strada per tornare indietro. Si fermò a specchiarsi in una vetrina: aveva la faccia disfatta e il cerchio rosso intorno all'occhio s'era infiammato ancora di più. Non si trovò affatto bello, anzi si sentiva un microbo.