"Confessioni di un invidioso", in La gente, Torino: Einaudi, 1993, pp.133 sgg.
Mio padre e mia madre non li ho scelti io. Come non ho scelto la mia casa dell'infanzia e dell'adolescenza. Non ho scelto la mia faccia, la lieve cadenza meridionale della voce, i mobili, gli oggetti e gli amici che mi sono stati intorno fino a vent'anni. Non ho scelto quasi niente di quanto ha distinto la mia vita e la mia personalità. Oggi che sono un adulto mi accorgo di aver passato gran parte del tempo a difendermi da colpe non mie. Tutto l'armamentario che ha fatto da corredo alla mia formazione di cittadino italiano, oggi posso dirlo con cognizione di causa, non mi è mai piaciuto. Mi ha costretto ad una fatica inutile e inumana: quella di ricostruirmi intorno ciò che altri, più fortunati, hanno avuto in dono nel momento stesso della nascita.
Malgrado tutto questo, alla mia infanzia e alla mia adolescenza sono profondamente affezionato. I tre quarti di ciò che oggi io sono non mi appartengono. Costituiscono il debito che ho ereditato dai miei genitori, quanto me innocenti. Quell'ultimo quarto che mi stato concesso come credito, che potrebbe potenzialmente decidere su un migliore destino dei miei figli, è una terra di conquista.
Le mie difficilissime scelte di adulto, infatti, tutte tese a cancellare ogni traccia di un passato che non mi piace, vengono quotidianamente stimolate dalla paura del vuoto e dell'immobilità e puntualmente frustrate dalla loro desolante astrattezza. Non trovo altro modo di inventarmi una vita diversa, di imboccare una strada alternativa a quella assegnatami dal destino, se non cercando di rendere migliore tutto ciò che mi ha fatto e che tuttavia voglio cacciare fuori da me e gettare nella spazzatura.
Un'impresa impossibile. Così continuo, con la mia faccia, con la mia voce, con la mia testa di allora, a nutrire i mali originari. Nello stesso tempo, forzando fin quasi alla follia il tradimento, mi avventuro in territori di nessuno, dove, distorti e sconvolti, vivono insieme le bugie del passato e i fantasmi di un impossibile futuro. In questa terra di confine non ho compagni. Mi perdo in un purgatorio spopolato, in cui gli alberi, le siepi, i monti hanno forme imprecise, in perpetua trasformazione.
Conosco coloro i quali, al contrario di me, sono venuti al mondo nella casa più giusta, con i migliori genitori, nell'agio e nella serenità. Li ho invidiati per anni perché li vedevo aristocraticamente occupati non certo a distruggere e neppure a ricominciare da zero. Passavano il tempo che volevano a succhiare fino all'ultima goccia il meglio dei beni che avevano ricevuto per grazia divina. Nascevano nel bello e apparivano belli anch'essi.
Ma qualcosa, d'improvviso, ha cancellato dalle mie aspirazioni segrete il mito di questi figli del bene. E è stato quando le loro case e i loro templi hanno cominciato a essere assaliti dai mercanti e dai banditi di strada, quando città e campagne si sono popolate di persone tutte uguali, rumorose e numerose, affamate di fame. Più che mai decise a prendersi e a dividersi le loro fortune.
Li ho visti, i miei invidiati coetanei, in preda allo spavento, quando hanno deciso di scendere a patti, quando hanno utilizzato con somma arte e a loro vantaggio gli antichi privilegi. Essi oggi usano tutta la loro libertà e tutte le loro innate energie nel tentativo di non lasciarsi distruggere. Così come io, con puntigliosa precisione, da sempre tento di distruggere l'ingombrante nulla che riempie la mia vita interiore. La difesa dei privilegi, per quanto sacrosanta, è pur sempre una battaglia umiliante, che tanto somiglia alle mie.
Osservo con tristezza gli invidiati coetanei: stanno modificando le loro case rendendole uguali a quella dei miei genitori. E già i loro figli si chiedono come tradire il proprio destino.
Ecco allora che mi trovo d'improvviso senza un cuore, senza rabbie, senza più invidie. In questo purgatorio di smarriti incontro destini che hanno dilapidato tutte le loro fortune. Mi giungono i primi segnali della loro stanchezza, forse della loro morte. Segnali che mi spingono a ripescare nei ricordi, e con spirito nuovo, tutto ciò che in questi anni ho voluto cancellare: la mia casa dell'infanzia e dell'adolescenza, le scuole che ho frequentato, gli amici che ho avuto. Mi sembrano - oggi che non invidio più nessuno - memoria di tutti, una fatalità naturale, come un temporale, un terremoto, un fulmine. Quei tempi e quelle strade comuni ci rendono uguali per tre quarti.
Non ha più senso cercare differenze nel passato. I miei invidiati coetanei ed io non siamo padroni che di un quarto della nostra persona. Negli ultimi anni la mia invidia, che in ogni modo era una lampadina accesa, ha perso la sua ragione d'essere. E questo non mi fa sentire meno solo. Fin da ragazzo mi sono allenato a fantasticare una vita diversa e impossibile, come ormai fanno tutti. Col tempo ho raffinato il mio istinto predatore, ho addestrato il fiuto a stanare brandelli di verità nel ginepraio di vacuità in cui mi trovo. Continuo a non avere nostalgie, come prima. Il mio passato non ha regali da farmi e ancora una volta non ne invoco l'aiuto. Anche se non aver mai avuto privilegi, in fondo, meglio che averli perduti.