"Natura morta", in Nuovi argomenti, 55, luglio-settembre 1977, pp. 113-120
Mi hanno scartato una coscia
e me l’hanno ricamata.
Ho fatto prendere un po’ d’aria al femore,
ma ora è tornato a invecchiare
nella sua buia cantina di carne.
Come un feto spaventato
l’osso è retrocesso davanti alla luce.
Così la sua vita sotterranea
continuerà silenziosa,
come un pensiero affogato nel corpo.
L’idea appare per un attimo,
come una beccaccia contro il cielo.
Schizza in alto sorpresa, atterrita;
più atterriti noi la guardiamo.
Tasta lo spazio tremando, già sfuma.
Io l’afferro quando ancora si dibatte calda.
Sarò io a dargli un nome.
Mentre stupita mi fissa
io ne deciderò la vita.
Battezzata, riprenderà il suo volo serena e ferma.
Le parole infine fioriscono senza ordine.
Emergono come biancheria dimenticata
in cassapanche antiche.
Non tempo, non forma, non colore le uniscono.
Ma esse corrono inanellate,
percorse da un’ansia comune.
Ciò che si cerca è sempre altrove,
perché è con ciò che si trova che si scrive.
La metafora e la comparazione
sono grandi virtù poetiche.
Raddoppiano l’idea che fecondata
rimanda la sua eco.
Sono forme d’un baratto d’immagini,
catene d’allusioni.
Così, quando il pensiero attraversa
il loro campo, ne rabbrividisce e si duplica.
La silenziosa elettrolisi della sintassi
apre nel linguaggio
un’altra viva ferita.
Ma è per salassi che si scrive
sul corpo del grande malato.