Omero liquido
Giovanni Cerri, Università Roma Tre
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Oral-Theory e analisi stratigrafica del testo omerico non sono metodologie tra loro incompatibili. L’unico modello ermeneutico valido a spiegare la genesi dell’Iliade e dell’Odissea è il concetto di ‘poema tradizionale’ quale è stato definito da Gilbert Murray. In esso una determinata cultura vede il proprio strumento pedagogico primario, un punto di riferimento canonico: per questo lo conserva attraverso i secoli, ma, nel conservarlo, lo amplia e lo ristruttura senza posa, per mantenerlo sempre adeguato alle proprie esigenze, necessariamente mutevoli col passare del tempo. Per un’esauriente dimostrazione di tale assunto, illustrato con assoluto rigore filologico sul testo non solo dei poemi omerici, ma anche della Bibbia e soprattutto di alcuni suoi libri, come quello dei Giudici, si trova appunto in Murray, The Rise of Greek Epic, uscito in prima edizione nel 1907, in quarta nel 1934: troppo spesso, a mio avviso, è stato dimenticato dalla critica più recente, purtroppo non meno degli altri dagli studiosi di ascendenza parriana, i quali, se l’avessero tenuto presente, non avrebbero probabilmente associato, ad analisi tanto penetranti dei procedimenti propri del canto epico orale, una soluzione così banale della Questione Omerica (L’Iliade e l’Odissea come testi improvvisati, un bel giorno dettati da un solo rapsodo ai fini di una singola registrazione).
Se ci si chiede in quale modo questo testo tradizionale in espansione possa essere stato progressivamente fissato nell’ambito di una cultura di tipo orale come quella greca arcaica, è lecito pensare a due diversi canali alternativi o anche complementari:
1) il primo, il più ovvio, è quello suggerito dallo stesso Murray: un filone di copie sempre più ampie e complete, che siano state utilizzate come testo di riferimento per le recitazioni in pubblico da singoli aedi o da intere scuole aediche particolarmente accreditate o da alcuni dei centri religiosi panellenici nei quali si svolgevano con regolare periodicità agoni rapsodici; in questo quadro, l’edizione pisistratea rappresenterebbe uno degli anelli finali della catena.
2) Ma non si può neppure escludere che, con una progressione del tutto analoga a quella ora descritta, la fissazione del testo sia avvenuta anche o soltanto per via mnemonica. È noto come la maggioranza degli studiosi oralisti ritenga che la tradizione epica orale si fondi esclusivamente sull’improvvisazione, non sulla memorizzazione, e che la nozione stessa di un testo rigido sia peculiare delle culture letterarie. Un’influenza decisiva è stata esercitata in questo senso dalla teorizzazione cui sono pervenuti M. Parry e A. Lord sulla base delle indagini sul campo da loro condotte tra i cantori iugoslavi operanti ancora nel nostro tempo. Ma altri dati comparativi, non meno validi, mostrano che in certe culture orali, accanto alla prassi dell’improvvisazione, si sviluppa col tempo anche quella della ripetizione fedele di un testo fissato a memoria con sufficiente rigidità, per canti che godano di un particolare prestigio. È appunto questo secondo tipo di memorizzazione che potrebbe essersi progressivamente sviluppato a partire da una certa epoca in determinati ambienti della grecità arcaica, per una più perfetta conservazione dei canti.
Queste due modalità di fissazione del testo possono essere concepite sia come alternative che come complementari: è verosimile che siano state entrambe operanti, a tratti su linee parallele, poi interagendo fra loro in circostanze che sarebbe assurdo pretendere di ricostruire sia pure in termini generici. Diversi testi omerici si saranno andati fissando in località diverse: il nostro risale a uno o più di essi. A lungo saranno sopravvissute, accanto alle recitazioni basate su un testo canonico, improvvisazioni più liberamente ispirate alla traccia iliadica e a quella odissiaca.
Homer in Progress
The Oral-Theory and the stratigraphic analysis of the Homeric text are not incompatible. The only hermeneutic model that can adequately explain the genesis of the Iliad and the Odyssey is the concept of ‘traditional poem’ as it was defined by Gilbert Murray. The “traditional poem” is a work which a specific culture sees as its primary pedagogical instrument, a canonic point of reference. Hence, this culture preserves it and hands it down over centuries but, at the same time, keeps adding to it and reworking it to make it always adequate to its needs, which inevitably change with the passing of time. An exhaustive demonstration of this assumption, tested with absolute philological rigour not only on the Homeric poems, but also on the Bible, and especially on some of its books, such as Judges, can be found in Murray’s work The Rise of the Greek Epic, the first edition of which came out in 1907, the fourth in 1934. In my opinion, this work has too often been neglected by recent critics, unfortunately including scholars of the Parrian school who, if they had taken it into account, would probably never have associated such penetrating analyses of the technique of oral epic poetry with such a trivial solution of the Homeric Question (the Iliad and the Odyssey as extempore texts, a happy day dictated by a single rhapsode for a single registration).
But how was this ever-growing traditional text progressively fixed within an archaic oral culture like that of Greece? Two alternative – or possibly even complementary – explanations come to mind:
1) The first and more obvious one was suggested by Murray himself: an ever broader and more complete stock of copies was used as a source for public recitations by individual bards, or especially renowned bardic schools, or some of the Panhellenic religious centers where rhapsodic contests were regularly held. If so, the Peisistratid edition would represent only one of the final links of the chain.
2) It cannot be ruled out, however, that the text may have been fixed also, or even completely, by memory. It is well known that most representatives of the oral school believe that the oral epic tradition was founded exclusively on improvisation, not memorization, and that the notion itself of a rigid text is peculiar to literary cultures. A decisive influence in this direction was exercised by the theorization proposed by M. Parry and A. Lord on the basis of their field investigations among Yugoslavian bards, exponents of a still living tradition. However, other, equally valid comparative evidence shows that, in some oral cultures, while improvisation is also practiced, especially prestigious songs are learned by heart and repeated rather faithfully. It is precisely this type of memorization that may have progressively developed from a certain period onward in specific milieus of Archaic Greece for the purpose of preserving the Iliad and the Odyssey more faithfully.
These two ways of fixing the text can be regarded as either alternative or complementary: it is plausible that both were at work in different times and places, only to interact later under circumstances that it would be absurd to attempt to reconstruct in any but the most general terms. Different Homeric texts were gradually fixed in different places. Ours goes back to one or more of them. For a long time, recitations based on a canonic text must have coexisted with freer improvisations drawing on the stories of Achilles’ Menis and Odysseus’ Nostos.
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