La variazione nei processi di trasmissione della cultura
Alessandro Simonicca, La Sapienza Università di Roma
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Il “cambiamento culturale” e la “trasmissione” della cultura sono due temi assai dibattuti nella storia dell’antropologia culturale contemporanea, perché sollevano il problema se la “cultura” sia una categoria normativa o descrittiva. Le principali versioni delle teorie della cultura (britanniche, statunitensi, francesi) si sono poi, nel tempo, appropriate del modello semiotico di “testo” o del modello cibernetico di “mente”, con soluzioni spesso piuttosto manchevoli. Vediamo di chiarirne le ragioni.
Partiamo dal tema del “cambiamento”. Grande parte della discussione specialistica si è soffermata sull’interrogativo se una cultura (definita pure in uno dei suoi molti modi) possa veramente cambiare e, quindi, quali limiti di “variazione” essa possa permettere al suo interno, senza cessare di essere tale o rischiare la sua “identità”.
Altrettanto problematico risulta specificare le modalità della “sua trasmissione”. Una cultura si trasmette grazie alla propagazione delle idee, al movimento delle persone, o alla forza del gruppo sociale da cui è generata? E queste sono solo alcune delle possibilità.
Storicamente, la prima risposta antropologica è stata di erigere una teoria della cultura ricorrendo al paradigma della scienza moderna, grazie al metodo della induzione, della generalizzazione e della scoperta di “leggi”. Con il tempo ci si è accorti che le procedure di ricerca dei fisici o dei naturalistici non si confacevano allo studio della cultura, che ha a che fare, prima di tutto, con la sfera umana e sociale del pensare e dell’agire. Dagli anni Sessanta pertanto, i paradigmi di ricerca maggioritari hanno privilegiato il metodo della “interpretazione”, al fine di individuare le intenzionalità soggettive, tanto dei gruppi quanto degli individui, che fondano la coesione sociale e valoriale.
È in questo contesto che l’antropologia ricorre massicciamente alla nozione di “codice” (testuale o cibernetico), come insieme di regole intersoggettive che trasformano le esperienze dei singoli in comportamenti standard e prevedibili.
Oggi, è divenuta consapevolezza comune che una accezione semplicistica di “codice” rischia di generare esiti insostenibili di “uniformismo”, nel pensare e/o nell’agire. In particolare, da più parti, si manifesta il rischio che un eccesso di sottolineatura delle “caratteristiche comuni” di una cultura possa produrre “identità essenzializzate”, in termini di differenze, creando discriminazioni positive (ad esempio, la “cultura occidentale”) e discriminazioni negative (ad esempio, le culture degli “altri”), senza comprenderne le distinzioni interne, le contraddizioni, le potenzialità reali, i processi, i plurimi percorsi della formazione del Sé.
Grazie anche all’apporto delle neuroscienze, si fanno avanti nuove strategie di ricerca che individuano nell’attività mentale umana non tanto un limite quanto una risorsa per la formazione di “regole”, e concorrono a rendere più organico il rapporto fra individuo e cultura, nella sincronia e diacronia.
Il punto cruciale è il modo in cui l’individuo non solo “segue” le regole, ma è anche soggetto abile a iniziare “mosse” autonome (agency). Le culture diventano così complesse organizzazioni che hanno potere causativo sui singoli, eppure aprono a “variazioni” diversificate (“ibridismi”, “sincretismi”, “diaspore”, “nomadismi”, “resistenze”, “primitivismi”, “creatività” e così via).
Pertanto, sul versante della “trasmissione”, una più attenta lettura delle Mythologiques di Claude Lévi-Strauss ci mostra come anche la nozione di “tratto culturale” - sino a poco tempo fa considerato uno strumento datato - possa offrire nuovi apporti per comprendere l’efficacia della diffusione spaziale (omogenea o differenziata) di modi di pensare e di fare, superando gli steccati che hanno spesso opposto i due momenti della simbolizzazione, l’“interpretazione culturale”- basato sulla condivisione delle regole, e il “funzionamento della mente”- basata sui processi cognitivi dell’individuo.
Variation in the processes of transmission of culture
The cultural change and the transmission of culture have been much debated in contemporary cultural anthropology, as they raise the problem of whether ‘culture’ should be a normative or descriptive category. The main versions of the theory of culture (British, American, French) have been appropriated by the semiotic model of ‘text’ or by the cybernetic model of ‘mind’, often with rather defective solutions.
Much of the specialised discussion focusses on the question of whether a culture (defined in one of its many ways) can truly change and, hence, what limits of variation it can permit within itself, without ceasing to be such or risk losing its ‘identity’.
The attempt to define the modality of its transmission is likewise problematic. Is a culture transmitted through the propagation of ideas, through the movement of people, or by the power of the social group that produced it? And these are only some of the possibilities.
Historically, the initial response of the anthropologists was to erect a theory of culture based on a paradigm of modern science, through the method of induction, of generalisation and the discovery of ‘laws’. After a time it was realised that the research procedures of physicists and natural scientists are unsuited to the study of culture, which primarily deals with the human and social sphere of thought and action. From the seventies, therefore, the majority of research paradigms have favoured the method of ‘interpretation’, to emphasise subjective intentionality of groups or equally of individuals, which helps to build cohesion in society and values.
And it is in this context that anthropology has to a great extent had recourse to the notion of ‘codes’ (textual or cybernetic), as a collection of inter-subjective rules that transform an individual’s experiences into standard and predictable behaviours.
Today it is generally accepted that a simple meaning for ‘codes’ may lead to unsustainable results of ‘uniformity’, in thought and/or in action. In particular, for several reasons, there is the danger that an excessive emphasis on ‘common characteristics’ of a culture may produce an ‘essential identity’, in terms of differences, creating positive discriminations (e.g. the ‘western culture’) and negative discriminations (e.g. the culture of ‘others’), without understanding its internal distinctions, the contradictions, the real potentials, the processes and the various paths in the formation of the Self.
As a result of the contribution of neuroscience, new research strategies are moving forward that identify in human mental activity not so much a limit as a resource for the formation of ‘rules’, and combine to make the synchronic and diachronic relation between the individual and culture more organic.
The crucial point is the way in which the individual not only ‘follows’ the rules, but is also a subject able to initiate autonomous ‘moves’ (agency). Cultures thus become complex organisations which have causative power on individuals and yet are open to all kinds of ‘variations’ (‘hybridisms’, ‘syncretisms’, ‘diasporas’, ‘nomadisms’, ‘resistences’, ‘primitivisms’, ‘creativity’, and so on).
Therefore, as far as ‘transmission’ is concerned, a more careful reading of the Mythologiques of Claude Lévi-Strauss shows how even the notion of ‘culture trait’ - which until recently was considered an outmoded concept - can make new contributions to our understanding of the effectiveness of spatial diffusion (homogeneous or uneven) of ways to think and act, overcoming the barriers that have often opposed the two moments of symbolisation: ‘cultural interpretation’ - based on a sharing of the rules, and the ‘functioning of the mind’ - based on the cognitive processes of the individual.
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