Vincenzo Cerami
Intervista
Nella intervista realizzata nel 1991 da Domenico Fiormonte (qui riprodotta integralmente), Vincenzo Cerami racconta la sua esperienza di scrittura al computer (metodi di scrittura, cambiamenti stilistico-narrativi, ecc). In questo stesso sito, vedi anche l’abstract di Word Processing and Literary Writing.
La conversazione-intervista con Vincenzo Cerami è stata registrata da Domenico Fiormonte a Grottaferrata (Roma) il 23 luglio 1993. Una volta trascritto e rivisto il testo è stato sottoposto allo scrittore per una verifica. Il tema principale dell'intervista è il computer e la scrittura, cioè come (e se) il computer possa influenzare il lavoro dello scrittore. All'epoca Cerami aveva al suo attivo solo due libri di racconti scritti al computer: La gente, Torino: Einaudi, 1993 e L'ipocrita, Torino: Einaudi, 1991. Oltre all'analisi delle differenze e delle similitudini fra i due volumi, lo studio su Cerami (vedi Word Processing and Literary Writing) prevedeva la comparazione fra le due versioni di una serie di racconti pubblicati prima sul quotidiano "Il Messaggero" (1991) e poi rivisti per l'edizione Einaudi (1993).
F: Prima dell'Ipocrita e della Gente aveva pubblicato altri libri scritti al computer?
C: No, non avevo scritto nulla con il computer, tutto con la macchina da scrivere. Ho imparato ad usare il computer quando ho lavorato al "Messaggero", allora ho capito la sua utilità e quanto fosse importante e prezioso anche a livello creativo.
F: Esistono altri racconti scritti in maniera tradizionale?
C: Ce ne dovrebbero essere uno o due sparsi; ricordo per esempio "Smith a Kioto", pubblicato negli anni Settanta sulla rivista Carte segrete.
F: I due ultimi libri che lei ha pubblicato (se si esclude la sceneggiatura di Johnny Stecchino) sono entrambi raccolte di racconti. È stato un caso o il computer ha influito sulla scelta e sulla composizione di testi brevi?
C: A dire la verità non me lo sono mai chiesto. Ma ti posso raccontare com'è andata. Avevo portato il computer in montagna per fare un saggio sulle Ceneri di Gramsci da pubblicare per la Letteratura Italiana Einaudi. Avevo il computer e tutta la giornata a disposizione per dieci giorni. Mi sono accorto però che era troppo complicato lavorare senza materiale, come libri, saggi, documentazione, ecc., anche se avevo molte idee. Allora ho rimandato quel lavoro e mi sono messo a fare i racconti. Volevo scrivere una cosa "interlocutoria", ma non è escluso che mi abbia incoraggiato l'idea di vedere il risultato quasi subito... poter arrivare alla fine di una cosa mia nel giro di una vacanza.
F: Ho notato che in generale la scrittura migliora nella Gente, dove vengono eliminate frasi fatte, ripetizioni, ridondanze, ecc. Il livello di "letterarietà" è più alto nei nuovi testi, anche se ciò non è detto influisca automaticamente sulla qualità della narrazione: la versione giornalistica della Foto di Garibaldi, per esempio, [poi diventato Il fotografo del Papa ] mi sembra più riuscita, si vede che il cambio di protagonista ha nociuto al ritmo della storia...
C: I racconti dell' "Indiscreto" sono stati scritti ogni giorno per il seguente. Il direttore del "Messaggero" aveva deciso in un primo tempo di affidarmi una rubrica, intitolata appunto "L'Indiscreto", nella quale dovevo fare satira, maldicenza giornalistica, nel solco di una rinomata tradizione. Ma la mia satira era durissima e il direttore si spaventò. Decise così di farmi fare dei raccontini, ma io ero allarmato perché dovevo scrivere tutta l'estate un racconto al giorno, di una lunghezza data, ecc. I primi racconti li ho scritti basandomi sulle idee, ma molto velocemente, e questa è la ragione per cui li ho cambiati: la prima versione era mirata a un lettore di quotidiani, la seconda a un lettore di libri.
Gli altri racconti, dopo i primi, li ho scritti così: mi sono fatto dare le foto dell'archivio del giornale, le sfogliavo e alcune mi evocavano idee. Ad esempio "Giovannino e le ombre" è ispirato ad una foto di un famoso fotografo siciliano, nella quale si vede un cortile, un bambino e delle ombre di persone affacciate.
F: I racconti della rubrica "L'Indiscreto" sono scritti direttamente al computer o sono stati preceduti da appunti?
C: No, sono stati scritti e corretti direttamente al computer.
F: E i racconti dell'Ipocrita?
C: Sono stati scritti con molta più calma, non avevo alcuna fretta di pubblicarli. Il racconto ha un vantaggio: si può prendere e abbandonare per cominciarne un altro, e si possono prendere grandi intervalli fra un racconto e l'altro. Già il primo racconto, "Gli elefanti", mi aveva offerto la possibilità di un "picchettaggio" linguistico e stilistico che ho rispettato anche negli altri testi. Ho cercato di dare a tutti i racconti uno stile comune, perché non fossero troppo eterogenei. Quando scrivo una prosa creativa faccio un primo lavoro esclusivamente di pensiero, poi prendo qualche appunto fino a che non arrivo a una scaletta delle situazioni principali. A quel punto ogni libro mi richiede un tipo di lavoro diverso. Ad esempio il romanzo breve "Amorosa Presenza" l'ho scritto a stesure successive, senza pianificazioni o scalette preparatorie, altri a scalette sempre più precise; poi però -- e questo avviene comunque -- mano a mano la scrittura mi suggerisce dei cambiamenti. Quindi io lavoro contemporaneamente con il testo e con la struttura che ritocco via via. La maggior parte dello sforzo avviene prima di cominciare la scrittura vera e propria, consiste nello stabilire il campo lessicale e stilistico. Parto da un qualsiasi capitolo, poche pagine che contengano tutto gli elementi espressivi e il contenuto stilistico di quello che sarà il libro. Fra l'altro, io uso quasi sempre lo stile libero indiretto: le descrizioni sono in un certo senso il prodotto dei personaggi, e proprio per questo devo prima fare degli esercizi di scrittura: il personaggio non può parlare di argomenti che non conosce.
F: Non pensa che questo abbia a che fare molto con una prospettiva visiva, cinematografica; come una ripresa neutra, una osservazione della realtà senza emettere giudizi?
C: No, perché questo metodo di scrittura è in realtà molto precedente al cinema, si pensi a Dickens...
F: Io mi riferivo al fatto che le sue opere spesso rivelano una vocazione cinematografica, anche quando non è lei stesso a concepirle e pensarle dall'inizio come adatte o destinate al cinema.
C: Può darsi; ma questo accade principalmente perché io mi sento più un "narratore" che uno "scrittore".
Anche il mio unico romanzo in versi è scritto in terza persona, cosa piuttosto rara per la poesia italiana, mentre è piuttosto comune nella poesia inglese. Io preferisco guardare senza essere ingombrante, senza entrare direttamente in scena. Mi è capitato di fare un film tratto da un romanzo di Sciascia: Porte aperte. È stato difficile, perché il libro era un pamphlet contro la pena di morte. Il film è stato una questione di interpretazione. Comunque non è che la mia narrativa sia così rappresentata nel cinema, se si fa il confronto con Moravia o Sciascia.
F: Tornando al computer: quando lei ha scritto di getto questi racconti partendo da una foto, ha compiuto un'operazione particolare, dettata da certe esigenze. Non pensa che il computer, modificando il metodo di lavoro, abbia influito sul risultato finale?
C: Anche in questo caso non mi sono posto il problema. Se li avessi scritti a macchina la questione principale sarebbe stata la mancanza di tempo; ma se avessi avuto più tempo a disposizione li avrei fatti con la macchina da scrivere. Precedentemente avevo collaborato con il "Messaggero" scrivendo dei racconti presi dal vero, in pratica raccontavo i più famosi episodi di cronaca nera del passato (dal caso Montesi, al caso Fenaroli, ecc.). Ne scrivevo uno alla settimana, ne ho scritti parecchi, e avevo pensato di pubblicarli [ora pubblicati con titolo Fattacci, Torino: Einaudi, 1998, n.d.r.]. Anche se li ho scritti con dei documenti a disposizione e a partire da un fatto reale, nemmeno questi possono dirsi interamente e propriamente giornalistici: il momento del delitto, che io descrivo, è per esempio inventato e reinterpretato di sana pianta.
F: Però, mi corregga se sbaglio, se lei avesse scritto a macchina avrebbe prima preparato la scaletta, da questa avrebbe ricavato un racconto, a quel punto forse l'avrebbe scremato per farlo risultare della giusta misura...
C: Se si devono scrivere obbligatoriamente un certo numero di righe si concepisce già a priori una soluzione adatta. In altri casi però il fatto creativo è condizionante. Stamattina mi è capitato di mandare un raccontino al "Gambero Rosso" [supplemento del quotidiano "Il Manifesto", n.d.r.]; mi avevano chiesto cinquanta righe, ma io gliene ho mandate ottanta. Ora, se mi chiedessero di tagliare, probabilmente farei prima a scriverne un altro, perché quel testo ha già la sua misura, il suo respiro, e ridurlo vorrebbe dire anche snaturarlo.
F: La "perdita" delle varianti è l'aspetto più notevole, per alcuni anche il più allarmante, nel passaggio dalla scrittura convenzionale al word processor. Quali sono secondo lei i vantaggi?
C: Il grandissimo vantaggio del computer sta nel fatto che è veloce e mi permette di verificare immediatamente la validità di certe idee. Prima dovevo lavorare con il foglio in macchina da scrivere, scrivermi a penna le varianti su un blocco a parte, poi dovevo portare la variante sulla macchina da scrivere e vedere se funzionava. Il problema non è ciò che si perde, perché io penso che le versioni e le varianti che vengono scartate sono necessariamente peggiori. Il pregiudizio vorrebbe che se tu hai più tempo rifletti di più, però è anche vero il contrario: stando troppo a lungo su un argomento si perdono tutta una serie di cor
ollari che stanno intorno ad una idea. Quando modifico velocemente al computer non cambio solo ciò che sto cambiando in quel momento, ma tutto il percorso futuro.
F: Molti sostengono -- e fra questi c'è Umberto Eco -- che quando si scrivono testi lunghi col computer, si tende a perdere di vista (e quindi a per
dere il controllo) della totalità dello scritto. Questo avrebbe portato, in saggistica, ad unaumento della paragrafizzazione del testo. Si tende cioè a scrivere in maniera più asciutta, più ordinata, ma più "a blocchi". Che ne pensa?
C: Potrebbe essere un pericolo per i dilettanti. Con il computer la pagina risulta formalmente perfetta, ma questa perfezione formale può nascondere l'imperfezione "sostanziale".
Io però non ho mai avuto un rapporto molto stretto con la pagina in senso materiale, e comunque per evitare sorprese lascio per un po' di tempo da parte le pagine già stampate prima di rileggerle. Preferisco inoltre agire sul testo stampato, perché con il video si perde la percezione della quantità di ciò che si è scritto. Per La gente avevo l'originale sul dischetto, poi lavoravo sul computer. E comunque quando intervengo sul testo con una variante non cancello subito la precedente. Poiché non sono un grande conoscitore di computer non uso funzioni come il doppio schermo, ecc. Quando ho dovuto riscrivere completamente un racconto ho lavorato con il testo stampato a fianco: non uso nemmeno la correzione ortografica.
F: A me è parso che l'opera di letterarizzazione che lei ha operato sui racconti scritti per "Il Messaggero" abbia smussato in qualche modo i temi forti, le tesi dei racconti. Questa passa in secondo piano e subentrano un tono e uno stile più morbidi, non crede?
C: Lo spirito con il quale ho riscritto e modificato i racconti è del tutto diverso da quello con il quale li ho scritti la prima volta. Nel giornale erano pubblicati singolarmente e io non pensavo ad un lettore che potesse raccoglierli, e in ogni modo sarebbero passate ventiquattro ore fra un racconto e il successivo. Nel libro invece ogni racconto si nutre indirettamente dei precedenti, ma anche di tutto il resto. Non volevo che fosse una raccolta di racconti sparsi, ma un romanzo. Ho rinunciato all'esplicitazione affinché il libro non si riducesse a una serie di apologhi. Se un racconto deve essere letto da solo è bene che ci sia all'interno esemplarità; ma in un insieme di racconti non mi piaceva, anche perché non tutti erano uguali.
F: In "Lettera d'amore" e "Una zitella moderna" (poi diventato "Paul Newman") dalla prima alla seconda versione saltano alcuni passaggi narrativi. Non le sembra -- mi scusi se insisto su questo punto -- di aver sacrificato l'impianto originale della storia a vantaggio del tono e dello stile?
C: Lo stile, al contrario, deve dare una dilatazione ai segni, deve mostrare che la realtà è più strutturata rispetto al teorema perfetto dell'apologo (dal punto di vista funzionale il teoremino potrebbe funzionare in un racconto isolato). No, non mi sembra che lo stile abbia sacrificato la narratività.
F: Nel racconto "Paul Newman" il finale è completamente diverso...
C: L'ho cambiato perché, ripeto, nel libro ho voluto dare maggior fiducia al lettore -- e anche al mio testo.
F: Quindi il libro come oggetto, come fine, ha influenzato la scrittura.
C: Ma questa è una definizione di letteratura...
F: Alcuni pensano (e a confermarlo ci sono perfino degli studi [vedi la bibliografia di Word Processing and Literary Writing, n.d.r.]) che il computer faciliti sì alla correzione, ma più nel senso del "modellare" che del "riscrivere". Ossia la facilità della correzione spinge a modificare delle parti piuttosto che a riscriverle completamente. Crede che oggi qualcuno, avendo a disposizione un computer, riscriva quattro volte un romanzo come faceva Moravia?
C: Moravia scriveva tante versioni per poi dettare a una segretaria quella definitiva, e comunque non si curava più di tanto dello stile. Io sono profondamente convinto del fatto che gli strumenti e i contesti modifichino i testi e che la tecnologia offra delle possibilità in più. Il computer potrebbe incoraggiare le pigrizie di qualcuno, ma io personalmente sono molto rigoroso quando si tratta di letteratura. Credo poi che ci sia una sensualità da salvare nel rapporto con il testo; non si tratta, banalmente, di toccare il foglio: è qualcosa di più. È dare valore al testo, al di là della tecnologia.